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SINDROME DI
PETER PAN?
(Che ne sarà di noi?) 2005
Giovani
laureati, ultra specializzati, si ritrovano a trent’anni senza sapere
nulla del futuro, costretti per necessità a dividere la casa, la spesa, a
rinunciare alla propria intimità. Interminabili periodi di praticantato,
contratti che scadono di due mesi in due mesi, lavori in nero, vite
precarie senza possibilità di fare progetti, di viaggiare, di procreare. Sono accusati spesso di essere eterni Peter
Pan. Ma non sarà proprio la società a volerli
eterni bambini, non fidandosi della loro intraprendenza e delle loro
capacità, non creando spazi per permettere loro di sviluppare e realizzare
nuovi progetti?
Ecco qualche frammento dei pensieri che
questi giovani hanno espresso in occasione di queste fotografie:
Pier Paolo: “Ho 35 anni. Sono stato licenziato insieme ad
altre 60 persone. Tutti qualificati e con buone competenze. Non credo che
cercherò un altro lavoro come questo, non credo che abbia senso rincorrere
il tempo indeterminato, semplicemente perché non esiste più, è stato
soppresso. Mi sa che mi toccherà inventarmi un lavoro.
Diego: “Mi sento un re dei precari. Ed ero cuoco
guida broker mendicante bibliotecario metalmeccanico giardiniere
assicuratore copywriter receptionist tecnico saggista pubblicista
professore vignaiolo addetto stampa segretario e netturbino, ovviamente,
oltre che badante venditore porta a porta filosofo operatore di call
center art director e magazziniere, tralasciando le occupazioni
saltuarie. Essere precario per me vuol dire aver avuto tutto dalla vita,
tutto tranne la Felicità. E’ per questo che ho imparato da Pascal: se vuoi
essere felice è più che sufficiente sognare, ogni notte, d’essere il Re.” |
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Edoardo: "La
realtà mi appare grigia e schifosa. Non dico la mia propria, che pure
luminosa luminosa non lo è. Intendo quella di chi mi sta intorno, che è
costretto a una vitadimmerda, senza speranze né progetti sensati. Perché
la vita di per sé non è niente, credo nel Nirvana che indifferenzia tutto
e il suo contrario, il Nirvana già-sempre qui presente, attingibile con la
mente. Però le persone intorno a me non lo sanno e soffrono e provo
compassione per loro. Per lavorare lavoro,
ormai sto lasciando la scuola per dedicarmi alle traduzioni. È bello
tradurre, molto più che insegnare, perché uno se ne sta a casa propria,
tranquillo, ascolta la musica, chatta e scrive mail, fa progetti, scrive
il diario, anziché dover raccontare balle ingessate dai programmi
ministeriali, stimolare curiosità artificiose e inautentiche, sedare
stupidi moti dell'animo adolescenziale barbarico, consigliare consigli
insulsi e inapplicabili, dare risposte di comodo ipocrite e istituzionali
senza poter mai scendere al cuore dei fatti per dire: ragazzi ribellatevi
a tutto se no siete fottuti, mandate tutti a cagare se no siete morti, non
fidatevi di nessuno se no siete inculati, non date retta al cuore se no
siete spacciati, non rinchiudetevi in voi stessi se no siete fregati. Tradurre è infinitamente meglio: me ne sto in
pigiama fino all'una, anche una e mezza. Poi preparo il pranzo e mangio.
Da solo. Nella casa che condivido a Torino con tre ingegneri ambientali
sottopagati. Ho 34 anni compiuti il 18 maggio, come Bertrand Russell e
Karol Woytila."
Laura: "Ho 30 anni e sono una musicista. Vivo dando lezioni private di pianoforte e di qualche collaborazione in
ambito musicale, forse tra vent'anni potrò insegnare nella scuola pubblica ed
avere uno stipendio, forse. Stimo molto mio padre e mia madre, che ciò che hanno se lo sono costruiti
da soli e che alla mia età erano già genitori e lavoratori da tempo, per me sono
quasi degli eroi. Io invece non ho ancora una famiglia mia e ho bisogno del loro aiuto per
continuare a fare quello per cui ho studiato. Così, mi sento una "precaria" nel lavoro e nella vita." |